16 novembre 2006

Padri e Figli

La prima memoria che ho di mio padre è alla stazione, lui che mi salutava stringendomi forte contro il panno ruvido della divisa e mi baciava sui capelli. Tornò tre anni dopo che io già andavo a scuola ed era cambiato da come me lo ricordavo. Mezzo sordo per i bombardamenti, la faccia scavata e le mani sempre tremolanti.
Aveva un modo strano lui di riprendermi, quando facevo i capricci perché non volevo andare a letto o non mi andava di mangiare e volevo solo giocare. Mi diceva: “guarda che fuori c’è gente che muore!” e io non lo capivo. Intuivo dal suo sguardo triste dietro gli occhiali che voleva dirmi qualcosa di grave e profondo e gli ubbidivo, ma mi sfuggiva il senso.
Un pomeriggio di fine Ottobre -avevo dodici anni- stavo giocando nell’aia e mi arrivò inconsueto quello strillo di mamma da dietro la cascina. Il babbo era riverso sull’uscio della rimessa degli attrezzi, con le braccia piegate all’indietro come se stesse spingendo via qualcosa. Prima che mi trascinasse via con il viso coperto col grembiale lo guardai bene. A vederlo così con gli occhi aperti in quella posizione non sembrava morto.

Più tardi, molto più tardi, con le bombe che sbracavano i palazzi ed i cadaveri straziati per le strade capii quello che mio padre voleva dirmi. Mi voleva avvertire che la guerra è maligna. E che la vita spesso è troppo breve per sprecare il tempo in capricci. Mi parlava con lo sgomento del suo sguardo dell'orrore della morte. Voleva un mondo nuovo per me. Mi voleva semplicemente bene.
Io adesso con questa creatura in grembo, la sua testolina nelle mie palme aperte, ripenso a mio padre e lo vedo bambino. E' tutto tranquillo stanotte ed è come se lui fosse qui e non dovessi più morire nessuno là fuori.

1 commento:

CalMaFdd ha detto...

Vedo che la circolarità del tempo e l'eterno ritorno in qualche modo sono dimensioni che ti appartengono. Bellissimo.

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