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19 agosto 2007

alla ricerca di un possibile epilogo: ragioni etiliche reloaded

Io questa serie qui di raccontini avrei voluto chiuderla da tempo. Poi l'altra sera m'è capitato di comprare del vino e mi sono accorto solo a casa quando l'ho aperto che aveva il tappo a vite. Avevo la gola troppo secca e troppo voglia di un goccio per fare tanto il sofista. Certo, ho pensato, che se vai a comprare il vino al supermercato il rischio c'è! C'era un tempo che avevo l'enoteca preferita e quando ero a casa in franchigia, mi capitava di passare pomeriggi interi a discutere col signor Umberto di quella o quell'altra cantina, di questo o quell'altro vino. Bere tanto, ma con criterio, questo mi sono sempre detto. Poi i soldi non durano in eterno e anche la pigrizia gioca la sua parte. Comprare le cose al supermercato è più facile. Mi concendo sempre il bicchiere da degustazione giusto, perché ci si può sbronzare con classe, ma per quella bottiglia là ho rispolverato dalla dispensa un bicchiere di vetro infrangibile, di quelli bassi e tozzi da osteria. Tutto contento mi sono messo a gustare il mio vino col tappo a vite, così, notando fra l'altro sull'etichetta che nella zona di produzione è stata scoperta una discarica di rifiuti tossici.
Dev'essere stato quello (o i solfiti) perché non mi capita mai che una sola bottiglia mi mandi al tappeto. Anzi al divano, perché ho riaperto gli occhi che stavo stravaccato a faccia in giù col sole che già filtrava dalla tapparella. Avete mai visto quando la luce entra di traverso nella stanza buia e sembra che ci sia polvere dappertutto nell'aria? Con la guancia ancora appoggiata al cuscino un po' umido del divano, mi sono spostato un po' e ho messo a fuoco il tavolino. Tutto coperto di giornali vecchi e lattine di birra. Si vede che la signora delle pulizie se n'è tornata al suo paese per l'Estate. Avrà un bel da fare a Settembre quando torna. Il posacenere è una piramide di mozziconi. Gli inglesi li chiamano "culi", culi di sigaro. Ho scoperto che quelli di sigaretta sono veramente tossici nell'ambiente, per via del filtro che è di fibra di plastica, sapete? Io fumo solo sigari e inquino di meno, allora. Dovrebbero scriverlo sulle scatole dei sigari: "il fumo uccide, ma non fa così male all'ambiente".
La polvere dall'aria si posa veramente dappertutto. A guardare il tavolino di vetro da quella posizione mi sono reso conto che copre tutto allo stesso modo. Le cose vecchie e le nuove, con grande giustizia.


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Ragioni Etiliche - 6 >>>

06 luglio 2007

ambiguità

Cado. Ora mi sembra la conclusione inevitabile. Devo averlo saputo da sempre e me ne rendo conto solo ora che precipito liberamente.
Questa giornata era iniziata solo con l'eccitazione dei preparativi. Il cavo d'acciaio teso e non una nuvola all'orizzonte. Non proprio un'occasione da record, in una città di provincia coi palazzi mai troppo alti, tuttavia la prima volta per me senza rete.
E' quando mi sono trovato a metà che ho avuto chiara l'idea -come un lampo- che di queste imprese in realtà non mi mai ha attirato né la soddisfazione di superare la prova, né l'adrenalina del rischio; non ho niente da dimostrare a nessuno e non una causa a cui dedicare il successo. L'unica vera ragione che mi spinge è proprio quell'ambiguità di essere sospeso fra terra e cielo.
Così ho continuato a pensare mentre mi avvicinavo alla balaustra e a un tratto, elaborata la folgorazione, mi sono fermato. In equilibrio mobile: l'asta fra le braccia a compensare gli sbilanci. Dev'essere stato un tempo piuttosto lungo; me ne sono reso conto guardando le persone di sotto assiepate dietro le transenne. Li vedevo urlare senza sentirli veramente. E il resto dello staff sul tetto del palazzo ad aspettarmi che si sbracciavano in gesti arcuati. "Vieni! Forza! Ancora qualche passo!" Istintivamente devo aver fatto qualche passo indietro, invece.
Non volevo arrivare. L'impresa più emozionante della mia vita sarebbe finita e mi sarei ritrovato solo stasera come tutte le sere a bere birra e guardare vecchi film in bianco e nero.
Ineluttabile, come la fine in tutte le cose umane, s'è alzato il vento a risolvere l'ambiguità. Cado.

13 marzo 2007

La cosa più giusta



Morality is more properly felt
than judged of; though this
feeling or sentiment is commonly
so soft and gentle, that we are
apt to confond it with an idea.
David Hume


L'avevano beccato mentre tentava di attraversare le nostre linee, con la bolgetta dei documenti ancora a tracolla. Chissà cosa gli era passato per la testa. Forse la morosa che l'aspettava al paese, o il pensiero del granturco da raccogliere, o solo la paura di farsi ammazzare. Fatto è che l'avevano preso e ce l'avevano mandato qui nelle retrovie. La diserzione non è una cosa leggera, ma considerato tutto, avrebbe potuto sperare nell’indulgenza di un ufficiale anziano abbastanza per essergli padre e se la sarebbe potuta cavare. Disertare invece di portare ordini importanti a una divisione isolata dall'avanzata nemica era tutto un altro paio di maniche.

Per mancanza di uomini toccavano a noi della Compagnia Servizi diverse incombenze, non escluse la cura di una mucca da latte e la gestione di una stireria improvvisata dal caporale che faceva il sarto da civile. Niente a che vedere con l’organizzazione di un plotone d'esecuzione, una novità per gente abituata in due anni di guerra più alle scartoffie che al moschetto. Ma gli altri erano tutti a farsi ammazzare al fronte pochi chilometri più in là. Si sentivano già più forti i colpi di obice della fanteria tedesca; sarebbero presto arrivati anche qui.

Il tenente Guidi era un bravo guaglione che veniva da una famiglia per bene. Toccò a lui il comando del plotone quella mattina. Il capitano, uno che gli piaceva bere forte, era morto di difterite un mese prima, il maggiore era fuori e lui rimaneva il più alto in grado.

Fu un rituale breve. Il cappellano faceva segni nell'aria mentre il giovane in ginocchio con le mani legate probabilmente ancora non capiva cosa fosse successo. Poi si dovette metterlo in piedi. "Ma stai su, Cristo!" non faceva che ripetere il tenente. Niente, né lui né il caporale, tutt'e due abbastanza mingherlini, riuscivano a tenere su quel pezzo d'uomo che ciondolava a destra e a manca come un fantoccio. Non si fucila un uomo inginocchiato di regola, ma non ci fu verso.
Avevo assistito ad altre esecuzioni. Una volta una spia. Poi quel soldato che aveva stuprato e ammazzato la vivandiera. Quando va bene, qualcuno mira in testa ed è un attimo, ma quella mattina il poveraccio non fu così fortunato. Sarà che nessuno sapeva sparare così bene, sarà che a vedere quel ragazzo chinato nel fango un po' faceva caso anche a me. Al comando tutti avevano sparato e lui era caduto indietro su un fianco con la pancia squarciata, ma ancora vivo.

Mi mossi dal portico e andai a chinarmi su di lui. Il volto sbiancato dall'emorragia, gli occhi sbarrati che mi fissavano, le braccia ancora legate e piegate in maniera innaturale. Non c'era bisogno di grande scienza per capire che sarebbe morto dissanguato, ma non così presto. Feci un cenno a Guidi. Lui si affrettò con la pistola già fuori del fodero.

“Spari, tenente” gli sussurrai da dietro.

Una cosa è abbassare la sciabola e stare a guardare la scarica che parte dai fucili. Alla fine sono altri ad uccidere davvero e anche loro sono avvolti da una colpa indistinta, difficile da attribuire; chi avrà tirato giusto? Di chi il colpo mortale? Sparare un colpo in testa a un uomo, un commilitone, guardandolo negli occhi è cosa diversa. Colpo di grazia, certo, è un gesto pietoso risparmiargli quei minuti di dolori atroci, ma sei da solo a premere il grilletto. Un unico assassino.

“Spari, tenente!” Non mi stava ascoltando, con la pistola in mano fissava il ragazzo senza muoversi. “Spari, per Dio! Non vede che sta soffrendo come un cane?”

Sembra che in certi momenti il tempo scorra più lento, come se passare da un istante all'altro costi la fatica del respiro. Mi feci più vicino e, senza che gli altri del plotone mi vedessero, avvolsi la sua mano destra con la mia.
La pistola era puntata bene. Un colpo solo. La cosa giusta da fare.


[un ringraziamento speciale all'editor che ha lavorato a questo pezzullo praticamente più di me]

16 novembre 2006

Padri e Figli

La prima memoria che ho di mio padre è alla stazione, lui che mi salutava stringendomi forte contro il panno ruvido della divisa e mi baciava sui capelli. Tornò tre anni dopo che io già andavo a scuola ed era cambiato da come me lo ricordavo. Mezzo sordo per i bombardamenti, la faccia scavata e le mani sempre tremolanti.
Aveva un modo strano lui di riprendermi, quando facevo i capricci perché non volevo andare a letto o non mi andava di mangiare e volevo solo giocare. Mi diceva: “guarda che fuori c’è gente che muore!” e io non lo capivo. Intuivo dal suo sguardo triste dietro gli occhiali che voleva dirmi qualcosa di grave e profondo e gli ubbidivo, ma mi sfuggiva il senso.
Un pomeriggio di fine Ottobre -avevo dodici anni- stavo giocando nell’aia e mi arrivò inconsueto quello strillo di mamma da dietro la cascina. Il babbo era riverso sull’uscio della rimessa degli attrezzi, con le braccia piegate all’indietro come se stesse spingendo via qualcosa. Prima che mi trascinasse via con il viso coperto col grembiale lo guardai bene. A vederlo così con gli occhi aperti in quella posizione non sembrava morto.

Più tardi, molto più tardi, con le bombe che sbracavano i palazzi ed i cadaveri straziati per le strade capii quello che mio padre voleva dirmi. Mi voleva avvertire che la guerra è maligna. E che la vita spesso è troppo breve per sprecare il tempo in capricci. Mi parlava con lo sgomento del suo sguardo dell'orrore della morte. Voleva un mondo nuovo per me. Mi voleva semplicemente bene.
Io adesso con questa creatura in grembo, la sua testolina nelle mie palme aperte, ripenso a mio padre e lo vedo bambino. E' tutto tranquillo stanotte ed è come se lui fosse qui e non dovessi più morire nessuno là fuori.

12 novembre 2006

Ragioni Etiliche - 6

Roma è una gran città. Basta che ti butti dentro i vicoli dietro corso Vittorio e ti sembra che stai cent'anni, duecent'anni indietro col tempo. Io poi in rione Ponti ci sono nato, lo sento dentro.
Ci sono tornato l'altra sera che c'era un caldo incredibile per essere a Novembre. Una serata così calma che nemmeno le squadracce di ragazzetti davano troppo fastidio.
La piazzetta della pace, vicolo del fico, il chiostro del Bramante e poi giù fino a tor Millina; tanti ricordi di bevute notturne quand'ero anche io un ragazzetto e in cerca di guai.
C'è quel palazzo lì tutto coperto di rampicanti fino al tetto. Una bellezza anche a guardarlo da fuori. Mi sono detto: ecco questo è un bel posto per pisciare! E mentre mi svuotavo pensavo adesso ti prendo un ciccetto, edera, e ti pianto anche a casa mia. Magari viene tutto il muro verde anche da me. Poi mi sono accorto che da un buco nel muro usciva tutta una piantina di trifogli. Mi sono messo a cercare se trovavo anche un quadrifoglio, ma niente.
Io l'unico quadrifoglio l'ho trovato a Cork, quella volta che ci fermammo per due settimane in Irlanda. Un quadrifoglio d'oro che avevo regalato a quella ragazza -mi ricordo ancora il nome- Joanne. Una testa piena di ricci e due gambe da paura! Eh, io con Joanne ci sono stato tutta la franchigia a letto con una bella scorta di whiskey a portata di mano. Poi non ho mai più trovato quadrifogli. Chissà se lei ce l'ha ancora. Sono passati trent'anni. Chissà se c'è ancora Cork!
Certo che sarebbe forte trovare un sistema per far crescere solo quadrifogli dalle piante. La gente pagherebbe chissà quanto per avere fortuna. Mentre pensavo appoggiato ancora al muro, ha cominciato a piovere. A gocciolare dalle grondaie sfondate. M'è sembrato tutto molto giusto.
Sono tornato a casa, attento a non slittare sulle ruote lisce del motorino, e qui mi sono messo a cercare nei vasi e nel giardino, ma c'era solo stupida erba.
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Ragioni Etiliche - 5 >>>

20 settembre 2006

Ragioni Etiliche 5

Stamattina c’è il polacco biondo al semaforo di Villa Carpegna. Lo incontro ogni tanto quando passo da qui. C’è una macchinona davanti a me e lui si piega a pulire i fari. È la sua specialità pulire i fari con uno straccio sporco in una mano e la sigaretta nell’altra. Oggi niente sigaretta, ché ha una mano col gesso. Anche quello sporco come lo straccio. Il tizio dentro la macchina si agita, suona, si sente anche da fuori che strilla incazzato, da dietro i finestrini chiusi però. Mi fa ridere: si muove tutto, sembra un pupazzetto. Magari, con una macchinona così, bella lucida, mi incazzerei anch’io se un polacco ubriaco coi baffi mi venisse a sporcare i fari col suo straccio.
Gli dico: “vieni qui. Pulisci!” Lui guarda il motorino e poi mi guarda strano. Gli dico ancora: “Pulisci!” Così viene e mi strofina un po’ il fanale. Tanto la lampadina è fulminata da non so quando e comunque pioverà tra poco. Volevo guardarlo bene e dargli qualche cosa.
Quando m’hanno portato al pronto soccorso qualche mese fa che era mattina presto l’ho visto là. Dorme nella sala d’aspetto poi alle otto, quando arrivano i dottori se ne va con una specie di carrellino dove ha legato una valigia, una scatolaccia di cartone e altri stracci.
Lo guardo da vicino: m’assomiglia. Sembrava più vecchio da lontano, ma avrà più o meno l’età mia. Biondo, però, coi baffi e una collana con una foglia di pietra verde. Mi frugo nella tasca della giacca, lo so che ho qualche spiccio finito dentro il buco della fodera. Ci metto un po’, ma lui aspetta. Riesco a tirare fuori due monete da venti e una da cinque. Dovrebbero bastare per una bottiglia di birra al discount.


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Capitoli precedenti: 4, 3, 2, 1

13 settembre 2006

Ragioni Etiliche 4

La madre di Lisa non poteva proprio sopportarmi. Mi ricordo come fosse oggi il primo giorno che mi ha portato a casa dai suoi. È strano, se ci penso, che mi ricordo proprio di lei, tra tutte le cose che dovrei ricordare. Il padre, il notaio, per esempio, non lo ricordo più. Non mi ricordo come era fatto. Quel giorno stava al tavolo con la testa abbassata sul piatto e non parlava. Lisa invece parlava con tutti e rideva. Si girava a guardarmi ogni tanto e poi continuava a parlare. I suoi capelli neri, lunghi e lisci si muovevano come le onde. Sua madre mi squadrava con quella faccia da cagnaccio, non mi toglieva gli occhi di dosso. Sarà stato perché quel giorno avevo una cicatrice ancora fresca sull’occhio ed ero divorziato. O perché allora avevo la barba da due anni di imbarco e dimostravo più degli anni che avevo, troppi di più di Lisa comunque. Nemmeno i fiori erano serviti a niente. Nemmeno una camicia stirata e la cravatta. E nemmeno i cioccolatini, che continuavo a portare ogni volta che mi trovavo in città fra un servizio e l’altro.
Lisa lo sapeva e se ne fregava. Scuoteva la testa e diceva che non era importante. Così diceva e continuava sorridermi, a prendermi in giro, a dirmi che ero un animale e la mamma aveva ragione.
Quando decidemmo di andare a vivere insieme fu la rivoluzione a casa sua. Perfino il padre si mise a strillare. Lisa che guardava lui e guardava lei, i capelli che le andavano di qua e di là. Io stavo fermo come un sedano e guardavo Lisa dritta in piedi con quelle braccia sottili, i pugni stretti e quella faccia ostinata che sapeva fare.
Ci trasferimmo in quell’appartamentino dietro la Sapienza che non c’era spazio neanche per respirare. Lei studiava tutto il pomeriggio e io fumavo e guardavo la televisione.
Sono stato bene con lei per quanto è durato. Anche se a ripensarci venticinque anni dopo la madre aveva ragione. Non eravamo accoppiati bene per niente. A lei non piaceva venire in birreria con me e con i miei amici e non le piaceva sentire i discorsi da ubriachi sulle navi e sui viaggi e su tutte le cose che interessavano a me. Lei si voleva laureare presto e io non capivo un’acca dei suoi libri e non mi piacevano i suoi amici studenti coi capelli lunghi e le facce da cantanti rock che frequentava. E a lei non piacevano i miei, perché avevano la divisa e puzzavano di fumo e di birra. Io ci sarei stato seriamente con lei per –magari- ricominciare da capo, ma non poteva funzionare.
Fui rimbarcato a Febbraio e tornai tre mesi dopo che lei già s’era sistemata bene le cose con uno degli assistenti lì dell’università. Tornai a casa e non feci in tempo a buttare il sacco sul letto che già l’avevo capito da come mi guardava. Giusto il tempo di pranzare insieme l’ultima volta con quelle schifezze vegetariane di miglio e altre porcherie che le piaceva preparare e se n’era andata. Mi sono trattenuto e sì che mi veniva di prenderla a sberle. Per tutte le cazzate che m’aveva detto; perché a nessuno piace essere un cornuto. Le avrei fatto male e poi mi sarei pentito. Mi sono pentito comunque perché alla fine è toccato a me pagare l’affitto e scolarmi da solo tutte le bottiglie in casa per cercare di capire.


Capitoli precedenti: 3, 2, 1
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Suggestioni anche da "Giugno '73" (da ascoltare) e "La Moglie del Leprotto" (da farsi raccontare)



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06 settembre 2006

Ragioni Etiliche - 3

Sono inciampato. E che non può capitare a chiunque? Lungo a pelle d’orso davanti al divano e cascando ho dato una capocciata tremenda sul tavolino. Sì, un male boia. Sarò rimasto almeno un quarto d’ora a pancia all’aria che non riuscivo nemmeno a capire dov’ero e che cazzo era successo.
Alla fine sono riuscito a mettermi in ginocchio con la testa che mi batteva come una campana e strisciare in qualche modo fino al bagno. Perdevo sangue come un maiale sgozzato da un taglio grosso così sopra l’occhio destro. Come quella volta che a Taranto, in una delle viuzze vicino all’Arsenale, s’era fatto a bottigliate coi teppisti.
Ho fatto appena in tempo ad abbracciare la tazza del cesso e mi sono vomitato pure l’anima. Una sbronza memorabile, ti giuro! Me la tenevo stretta come un’amante. Ah! Mi sono liberato e poi mi sono sdraiato sul pavimento con un asciugamano bagnato in fronte. Fino alla mattina dopo quando la signora che mi fa le pulizie ogni tanto mi ha recuperato e, in qualche modo, m’ha rimesso a letto.
Adesso che mi guardo allo specchio mentre mi faccio la barba mi viene in mente quel pittore irlandese come-si-chiama -una volta ci ho visto una mostra- quello che dipinge tutte le facce storte e gli occhi pisti. Proprio come me adesso e mi viene da ridere.

29 agosto 2006

Ragioni Etiliche - 2

Quella sera, sarà stato un mese fa, m'ero messo -come faccio spesso- ad aspettare il ponentino delle nove e già faceva scuro. Me ne stavo appunto spaparanzato in giardino sulla sdraio a bere e a fumare, quando una cosa nera è scappata fuori dall’orto. Sì, ché io c’ho provato a farci crescere qualcosa in questo pezzettino di orto. La frutta, i pomodori; tanto per passare il tempo. Ma vicino alla circonvallazione c’è così tanto fumo e polvere che non ci può venire niente di buono. Solo i rovi, quelli sì. E proprio dai rovi è spuntato il micio. Un micetto nero e bianco e gli occhi chiari. Piccolissimo, tutto magro e impaurito, eppure (la fame è una brutta cosa) m’è venuto fino davanti ai piedi e io gli ho tirato un pezzetto di grasso della fettina che era rimasto nel piatto. Insomma, da allora abbiamo fatto amicizia. Tutte le sere alla stessa ora, ‘sto cosettino di pelo si presentava davanti al tavolo e piano piano ha cominciato a giocare con le pantofole, e poi –come fanno i gatti- mi ha cominciato a venire in braccio. Senza fretta. Io sono stato al gioco, mentre finivo la mia bottiglia e le mie sigarette. Non era male come cosa. La sera è il momento più triste, specie adesso che fa notte sempre prima. Quando ti vengono i pensieri e ci serve il vino e qualcos’altro per decidersi e andare a coricarsi. Ormai sono vecchio e c’ho fatto l’abitudine a stare da solo, conosco i trucchi. Ma col micetto, passavo quell’oretta giusta, per andarmene a letto più contento.
Poi dall’altro giorno, niente più. L’aspettavo col pezzetto di ciccia sul piatto, alla solita ora e un po’ di latte per terra al solito posto. Non è venuto. Si sa coi gatti come succede. Oggi qui, domani chissà. Senza padrone. Sono rimasto ad aspettarlo fino a tardi. E la mattina dopo, il latte era ancora tutto nel piattino. Così pure il giorno dopo. Se n'è andato. Confesso che ci sono rimasto male. E' un paio di giorni che ci penso.
Mi sta bene, così imparo ad affezionarmi. Eppure credevo di averci fatto il callo. Come con le donne, che sono andate e sono venute. E ora non me ne frega più nulla. Gli amici poi, quelli sono andati e basta. Chissenefrega pure di loro.
Mi sta bene. Me ne fumo un’altra e poi vado a dormire che è ora.
Come faceva quella canzone? “Quello che non ho è quel che non mi manca.”
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Ragioni Etiliche - 1

12 agosto 2006

Ragioni Etiliche

Stamattina sono stato al supermercato perchè ho deciso di andare al mare. Che si può fare d'altro di Ferragosto a Roma? Prenderò il trenino per il Lido, come quando facevo da piccolo, con l'ombrellone, le sdraio e i fagotti con il pranzo. Però senza tutto questo adesso. Adesso viaggio leggero.
Mi sono detto, qui serve una lozione solare. Io non capisco niente di queste cose, ma sono andato al supermercato per comprare qualcosa del genere. Quando ero imbarcato, prima che mi buttassero fuori anche dalla Marina, ero sempre abbronzato e non mi preoccupavo del sole. Ma adesso a forza di stare chiuso dentro casa, sono diventato verde come un asparago e credo mi scotterei subito. Ma non si può mica stare tutto il giorno chiusi a cercare solo di avere a portata di mano un bicchiere con qualcosa di alcolico freddo. Infatti sono le 11 di mattina e sono già rincoglionito.
Insomma, sono al supermercato e mi guardo intorno. Trovo dove sono tutti i prodotti di bellezza. Le creme, queste cose qui. Io odio le creme. Sono peloso e odio le creme. Anche quando c'è qualcuno che ti massaggia e te le spalma sulla schiena. E' bello sul momento, se le mani sono delicate. Non mi piace poi essere tutto unto coi peli appiccicati. Eppoi la crema solare con quell'odore, blah, non lo sopporto!
Allora -dicevo- cercavo un qualcosa che si spruzza, uno spray come si dice. Ecco. Mi sono messo a cercare e ci sono le boccettine con lo spray, ma tutte con la protezione bassa, 2 o 8, al massimo 15. Non ho capito bene che significa, ma io voglio la 30. Con lo spruzzo.
Ce n'era solo una per bambini. Colorata. Ho capito che dopo il 15, non esiste più la protezione con lo spruzzo. Solo per bambini la 30, colorata. E l'ho voluta vedere. Era blu.
Mi sono immaginato io che mi spruzzavo sulla testa pelata la crema solare blu. No, proprio no. Non si può. Comunque era sempre crema, schifosa.
Non ho comprato niente alla fine. Ma sono ripassato dove stanno tutti i trucchi per le donne. I rossetti, quella roba lì. E c'era uno specchio lungo e stretto. Ho la faccia piena di rughe, come una maschera. Come quelle maschere che ho portato quella volta che sono stato in Corea. Ho tirato anche fuori la lingua e me la sono vista tutta bianca. Ho anche il fiato che puzza. Allora ho pensato mi ci vuole uno sciacquo e ho guardato dove sono tutti i dentifrici e il resto. Ma questa è un'altra storia.

[rev.1 - 12/08/06]

09 luglio 2006

The Next One



Prima, mentre eravamo seduti per terra a mangiare le nostre razioni in quella che sarebbe la cena, mi guardavo attorno. Guardavo gli altri. Stiamo perdendo un uomo al giorno. Pensavo a chi sarebbe stato il prossimo. Jack lo spilungone silenzioso del Nebraska. John, il marconista, con la faccia da ragazzo per bene. Milton, il nero, con l'M-60 e il pacchetto di sigarette sempre pronto. Chi sarebbe andato a "comprare la fattoria 6-per-3", come si dice qui*.
Dopo aver raschiato bene le nostre scatolette, ci siamo messi a riposare prima di ripartire appena notte. Il fango di questa giungla di merda, alla fine, ti diventa pure comodo.
Mi sono svegliato di botto che ancora provavo a tirare su George, il caporale con gli occhiali, il più anziano fra noi. Nell'incubo, stava andando giù da uno strapiombo e mi allungava la mano. "Aiutami", diceva e io non ce la facevo a tenerlo col peso dello zaino e tutto. Scivolavamo nel fango.
Col cuore che mi batteva forte in gola, zuppo di sudore, ho morso forte il telo mimetico per non farmi sentire. Non mi abituerò mai, cazzo, a quest'idea. Stanotte toccherà a lui. Il prossimo.

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(*) "buy the six-by-three farm", essere ucciso nel gergo dei veterani del Vietnam
Photo courtesy of About.com
Altre fonti di riferimento: "The Vietnam War" e "OV-1.com"

29 giugno 2006

Trucchi

Con Mauro i primi tre anni erano filati via leggeri e veloci come quando si aspettano dal tempo solo altre cose belle. Quando lui era tornato da tre mesi di trasferta in Brasile con un’altra moglie e una richiesta di separazione, Lucia era rimasta come un sasso ad inghiottire le lacrime senza capire veramente. Finché, dopo i litigi, i piatti rotti, la giudiziale e le valige alla porta, la casa era rimasta vuota. Come in una spirale sempre più stretta.

La sopportazione e il disprezzo erano arrivati dopo, ma dentro il cuore non s’era mai abituata all’idea di essere sola di nuovo, una divorziata. Le amiche vecchie e nuove, tutte divorziate anche loro, avevano fatto a gara per coprirla di attenzioni (non scopri quante persone stanno come te finché non ti ci trovi dentro): affetto e consigli pratici, per sopravvivere. Insomma quei gioielli di buonsenso che solo un’amica ti può regalare senza essere banale. “Prendi il lenzuolo” le aveva detto un giorno una di loro “e vedi quant’è comodo stare da sole nel letto matrimoniale. Invece di cambiarlo subito, io che dormo da un lato solo, lo giro al contrario e, via, ecco il lenzuolo pulito come appena lavato!”

Strano come ti dimentichi le cose e poi, quando meno te l’aspetti, quelle saltano fuori. Mesi dopo, una mattina, stava cambiando le lenzuola come sempre, precisa e svelta, senza pensare. Poi, come in un lampo di nostalgia, la mano che si ferma e accarezza il lato che era di lui lo trova ancora fresco e stirato. Il naso che si abbassa ad annusare: come appena uscito dalla lavatrice. Mentre rifaceva il letto con le stesse lenzuola rivoltate, guardò bene ora il suo di lato. Perfetto. E quella le sembrò veramente una gran bella trovata.

(rev. 29/06/06)

23 giugno 2006

Lack of Moral Fibre [2]

(riscrittura, 22/06/06 - revisione, 24/06/06)

Doveva essere così. Per troppo tempo io e te avevamo brindato e festeggiato all'ultima missione. Questa sì è la più difficile! Non torneremo da questa! Per scaramanzia, contro la sfortuna. E invece, da questa base, nove assurde missioni notturne.
Quella notte il fuoco della contraerea era fitto, sì, i crucchi ci stavano aspettando! La notte era troppo limpida, rotta solo dalle nuvole di fumo della contraerea.
Ad un tratto le esplosioni s’erano fatte incredilmente fitte e, quando il finestrino è andato in pezzi per una troppo vicina, ho sentito a pelle che qualcosa non andava. M’ero girato di scatto per vedere come stavi; c'era un rivolo di sangue che ti scendeva da sotto la cuffia sulla tempia, ma t’eri girato anche tu sorridendo e m'avevi fatto segno che andava tutto bene, come sempre. Col pollice alzato. Poi uno dei motori che perdeva pressione dell’olio (il colpo era stato veramente vicino) e tu sempre più pallido che ti abbandonavi sulla console. Non so, ne avevo viste già di scene come quella, di carlinghe strappate dai proiettili e di corpi sanguinanti a volte irriconoscibili dei commilitoni. Fosse stato un altro non mi sarei stupito, il sangue e la sofferenza erano cose di tutti i giorni. Ma tu no, io ti conoscevo bene. Dalla scuola di volo e poi sui Lancaster, sempre insieme nella stessa squadriglia e nello stesso aereo. Inseparabili. Non avrei mai dato l’ordine di cambiare rotta e rientrare. L'aereo poteva volare. Avrei continuato, avrei finito la missione e poi, con calma, sarei tornato alla base. Gli ordini erano quelli. Con i flak che ci esplodevano a pochi metri dal muso e illuminavano la scena ho avuto paura, lo confesso. T’ho visto così, svenuto sul sedile con quella smorfia del labbro un po' piegato sempre a sminuire le cose e il navigatore che provava a tamponare la ferita. Una stretta alla bocca dello stomaco. E non c’ho pensato più di tanto; quattro parole ringhiate nell’interfono e il bestione che lentamente s’inclinava alla virata.Gli altri dell’equipaggio non fiatavano. Sentivo il loro sguardo su di te. E su di me.
Così abortimmo la missione. Così non sganciammo le bombe. Nessun’altro morì quella notte. I motori a manetta, per recuperare minuti preziosi. Arrivare in tempo. Ce la potevamo fare. Tu eri forte. Non t’avrei fatto morire come un cane in quella scatola di latta.

S'era fatto giorno ormai e la pista si vedeva lontana sotto la nebbia che si stava alzando. Ora che il rombo dei motori era più cupo ho sentito che tossivi. Con la coda dell'occhio ti vedevo bene ora, il volto bianco come la cera. Il carrello tocca terra, gli ultimi controlli. Siamo a casa! Ce la facciamo! Ad occhi chiusi e il sangue che bagnava nero il colletto di pelliccia, t’ho preso in braccio. Urlavo agli altri d’aiutarmi. Mani e braccia che ti portavano giù per il portello, fin sulla pista. Io che gridavo e t'abbracciavo. Urlavo e ti scuotevo per il giubbotto. Urlavo e ti picchiavo. Il volto. Il petto. Le mie mani sporche di sangue. Non poteva essere. Non potevi andartene. Non tu. Non ora. Non l'ultima missione. Che avrei fatto io senza di te? No. No.
Come in un sogno, sapevo che tutti ci guardavano. Anche il comandante della base, m'hanno poi detto. Ci hanno separato a forza. M'hanno portato via che urlavo ancora, sì, non so in quanti mi tenevano, mentre tu, steso sulla pista con gli occhi chiusi e la testa piegata non ti muovevi più.

Tra poco andrò via da qui. Lascio questi muri bianchi immacolati. La sacca è già pronta. L'uniforme stirata con tutte le mostrine è qui sul letto e la camicia manda un buon odore di pulito. La commissione m'ha visitato. Mi dicono non ci sarà corte marziale in considerazione dello stato di servizio esemplare, ma un comandate di squadriglia della RAF, la migliore aviazione del mondo, non abbandona una missione, se non per codardia.
Sarò trasferito, questo è ovvio. Per me ora un posto vale l'altro. Quella era l’ultima missione. So già cosa scriveranno sulla scheda. So già cosa sono per tutti. Ed è così che mi sento anch'io. Tu non ci sei più, amico mio, e io sono un LMF.

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N.d.A. (vedi commenti)

12 giugno 2006

Libero Arbitrio

Per un attimo si sentì immobile in quel gesto innaturale. Nessuno fiatava più dagli spalti. Tutto era sospeso tra la furia sfinita dei pases e l'ultima stoccata.
L'enorme massa nera sanguinante gli stava a pochi passi con la testa abbassata leggermente, le zampe divaricate e il vapore che usciva dalle froge rese ancora più enormi dallo sforzo. Una posizione perfetta: il collo, la spada un tutt'uno col braccio destro teso, la muleta ben aperta col sinistro davanti alle gambe.
In quell'attimo, in quel pomeriggio incredibilmente freddo di Maggio, s'insinuò nella sua mente un pensiero. Dopo decine e decine di morti, tanto liturgiche da diventare meccaniche, gli parve chiaro che quella bestia ferma davanti a lui ormai battuta non voleva morire e lui non voleva ucciderla. Poteva fermarsi qui, non ce n'era bisogno. Figlio di toreri figli di toreri a memoria d'uomo, non s'era mai chiesto il perché di quel gioco sottilmente crudele dove il toro coraggioso e ingenuo, carica e carica, seguendo le tre fasi del rito inconsapevolmente, sospinto alla morte da un'energia che è puro amore per la vita. Tutto un inganno. Sporco.
Rimase così per un instante. Guardò più oltre, gli occhi stretti nella mira, il pubblico in attesa. Guardò se stesso.
Con un movimento preciso infilò la spada nel collo della bestia.
Mentre l'arena si animava di nuovo di voci e di inservienti, gli occhi velati del toro perdevano la luce e l'ultimo fiotto di sangue gorgogliava dalla bocca sulla sabbia. Suo padre era morto così, su un tavolaccio di legno pochi metri più in là.

02 aprile 2006

Self Justice

La storia della bambina stuprata e assassinata ci aveva lasciato tutti colpiti in paese. Nessuno escluso. E sì che ne vedi di cose brutte a fare questo lavoro, ma il modo, la violenza, la disperazione del padre e della madre. Che ne so? Quando ti capita un adulto anche una morte violenta sembra più naturale, più normale. L'effetto che aveva fatto a lui era impressionante. Aveva voluto seguire personalmente tutte le indagini. Non si dava pace. Quando sbatteva giù i pugni sulla scrivania, con quelle sue manone, sembrava che si dovessero staccare pure i gagliardetti dalla parete.
Il caso era rimasto aperto, ché i colpevoli non si sarebbero trovati mai. Troppo tempo e pochi indizi. Avevamo battuto ettari e ettari di campagna a colza e girasoli e grano, ma niente. Nemmeno un capello. E lui s'era tenuto la foto della bambina quella mandata ai giornali, bella nel giorno della comunione. Col vestitino bianco. Biondina e magrolina, come la sua di bambina. Più o meno la stessa età.
Noi lo vedevamo che era imbestialito. Mi diceva spesso quando gli portavo il caffè alla mattina: "Lo vedi, Caputo, la pena di morte non è giusta, sì sa. Ma per questi qui, per questi qui..." e tirava su quel pugno che sembrava matto.
Poi l'incidente. Niente di serio, penso. Una sera tornando tardi come sempre a casa, una parola di troppo con la moglie (dicono le cose non andassero proprio per la quale) e la bambina che s'era messa a fare i capricci. Insomma, uno strattone più forte del solito e il polso della bambina s'era rotto. Una frattura di niente, avevano detto al pronto soccorso, poco più di una incrinatura. Una bambina di otto anni recupera in fretta. Io però l'ero andato a prendere con la radiomobile e avevo visto lo sguardo suo e lo sguardo della piccola in macchina. C'era un'aria pesante. Quegli occhioni verdi spalancati e i suoi fissi sulle scarpe. La moglie muta sul sedile dietro.
Sono stato io il primo di pattuglia ad arrivare. L'hanno trovato così, in garage. Seduto per terra appoggiato alla cantinetta dei vini. Un colpo in bocca. Il vino rosso che colava e faceva rigagnoli col sangue. La divisa piegata bene e appesa alla maniglia.
Già! Ci vorrebbe proprio la pena di morte.

27 febbraio 2005

Short Term Memory Loss

Nella camera in penombra il giovane uomo accarezza amorevolmente la testa dell'anziano seduto.
"Ah, avrebbe dovuto vedere, lei, come ci accolse la gente di Trieste quando entrammo in città nel '54! Che feste! Tutti per le vie, tutti con la bandiera tricolore! Gli abbracci, i fiori!"
Con lo sguardo l'anziano vaga verso la luce della finestra, un tremito lo scuote.
Il giovane si piega più vicino, premuroso.
"Hai freddo, papà? Ecco, tieni la tua coperta."
Senza distogliere lo sguardo l'anziano s'aggiusta la piccola coperta colorata fatta a maglia. Poi s'anima di nuovo con un guizzo. "Eh, la mia Maria era brava con i ferri! Era brava a fare tutto.
L'ha conosciuta, lei, la mia Maria?"
"Certo, papà, Maria..."
"Maria..." e una stilla s'affaccia all'angolo dell'occhio dell'anziano.
"Devo andare ora, papà." Il giovane poggia per un attimo le labbra sulla bella testa folta di capelli bianchi.
"Torno domani, non ti preoccupare."

Nell'altra stanza una donna affaccendata.
"Mi raccomando, Filomena, gli faccia prendere le medicine in orario. L'ho visto un po' peggio stasera. E lo faccia coprire; aveva le mani ghiaccie oggi."
"Non si preoccupi, signor Guido, ci penso io. Vada tranquillo."
Guido esce e si chiude la porta dietro, piano senza far rumore.

21 febbraio 2005

L'Insegnante

"Chi sa fa, chi non sa fare insegna". E' da ieri notte che ho questo detto nella testa; continuo a ripetermelo come una filastrocca. Anche ora, mentre sto qui, appoggiato alla scaletta. Il fango grigiastro intorno è umido e freddo, ma sta spuntando il sole pallido da dietro il colle. Quota 770.
A quest'ora i miei ragazzi staranno entrando in classe; mi viene in mente l'odore di legno vecchio della cattedra.
Ancora qualche volta la mia filastrocca come quando si dice il rosario. Il collo della giubba mi sta facendo impazzire con la sua lana ispida.
"Sergente, è ora", "Baionette!".
Sfodero la sciabola lentamente. Ancora un piolo più in alto.
"Avanti, Savoia!", grido forte e ci lanciamo col sole basso alle spalle verso le mitragliatrici austriache.


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N.d.A. seconda edizione modificata il 1/09/05

16 febbraio 2005

The Dorm



I vagoni della metropolitana scricchiolano e sferragliano sinistramente mentre il treno s'avvicina alla banchina. Non c'è quasi nessuno a quest'ora. Giusto un paio di nottambuli sistemati sotto la telecamera nella piazzola di sicurezza.
La fermata di Hoyt-Schermerhorn fa schifo a quest'ora e a tutte le ore, infatti. La scaletta stretta che riporta a livello della strada è ingombra di cartaccia, bicchieri di carta e di altre cose che non ti va proprio di vedere. Almeno fa freddo e il tanfo di piscio e vomito non si sente troppo. All'angolo dell'isolato c'è il grocery store aperto fino a tardi. Lì mi conoscono e apprezzano le mie origini mediterranee. "Midnight Pasta", ossia la spaghettata di mezzanotte, è un concetto che mi sono venduto col negoziante e che anche i poliziotti di ronda hanno apprezzato. Mi porto via nella busta di carta qualche bottiglia di birra e un paio di lattine di zuppa. Tanto per buttar giù qualcosa di caldo. La birra però è fredda fredda e rimarrà fredda per quest'altro isolato.
Faranno 4 o 5 sottozero. La neve sporca s'è giacciata nelle aiuole. Qualche altra rapida falcata e sono al cancello e come tutte le sere mi fermo al checkpoint con la sagoma del dorm alle spalle. Gracchia la voce della guardia nell'altoparlante incastonato nel disco d'alluminio, "Hi". "Hi, Tom", faccio io. I convenevoli sono spicci all'una di notte. Tom mi conosce, m'ha visto ogni sera negli ultimo mese di turni di notte. Trovo quasi sempre lui. Ma non mi farebbe mai entrare senza tesserino e io neanche ci provo. Impreco mentalmente mentre mi levo un guanto per tirarlo fuori e sventolarlo contro il vetro antiproiettile, ma sono arrivato ormai. La hall è ancora ingombra di ragazzi che cucinano, vociano e guardano la tv. Non mi giro a guardarli; sono così stanco che neanche mi va di sbirciare la biondina in pigiama che mostra le sue grazie. Non si fraternizza tanto dopo l'ultimo episodio di violenza e io, oltretutto, sono uno straniero e si vede. Non è che stare qui mi esalti.
L'ascensore mi porta silenzioso fino al settimo piano e il linoleum mi scricchiola sotto i piedi fino in fondo al corridoio. La finestra senza tapparelle butta dentro la luce gialla dei lampioni; tra qualche ora farà giorno e odierò le sue tendine che non servono a nulla. Eppure è un'attrazione irresistibile. Il monolito di venti piani torreggia in mezzo al piazzale.
Onnipresente la cacofonia delle sirene in lontananza, mentre tre ragazzini stanno tentando di aprire la portiera di una macchina giù in strada.

22 gennaio 2005

Guanti

Giorgio ha una 911. Nera. Ha qualche problema allo spoiler che rimane sempre alzato, ma uno come lui non ha molto tempo per questi particolari. Lui è un primario d'ospedale. Occhiali, capelli ricci e baffetti che gli servono a camuffare quell'aria da eterno ragazzotto. L'ho visto l'altro giorno, assorto nei propri pensieri, nel traffico come tutti. Giacca, cravatta e gilè. Guidava con dei mezzi guanti di corda ecrù con inserti in pelle. Come tutti dovrebbero fare per maggior presa al volante. Importante con una macchina nervosa a trazione posteriore.
Attilio ha una Smart. Bicolore. Nuova, nuova. Gli piace sgattaiolare nel traffico e pensa che parcheggiare di traverso al marciapiede sia la cosa più furba da fare in una grande metropoli. Fa l'agente d'assicurazione, ha occhi scaltri. Capelli neri impomatati e pettinati indietro e pizzetto, somiglia un po' a Dalì. Ho visto pure lui guidare, con un trench giallo appoggiato sulle spalle. Guidava con dei guanti di nabuk color tabacco. Faceva un po' freddo in effetti quella mattina.
Io ho sempre le mani fredde, ma guido senza guanti. Ho il volante in pelle.

01 dicembre 2004

Buonanotte ai Suonatori



Tre belle idee avevo stasera da scrivere. Una cuccagna. Ottime idee, credo. Due arrivate in casa mentre mi cambiavo per uscire. La terza al supermercato, mentre rovistavo fra la frutta. "Scemo" ho pensato, mai che ricordi di portare carta e penna. Per i momenti così. Senza il laptop sottomano. Ma erano così forti, così fresche che non ho temuto per un attimo di perderle. Il tempo di buttare quattro cose nel carrello e correre a casa a scrivere.

Dritto il banco dei formaggi e io ancora a rovistare, poi come quando senti qualcuno che ti spia, da sopra la spalla ho messo a fuoco. Tutte allineate come in parata, mille bottiglie a meno di due braccia. Il brie cade nel carrello e io mi appoggio sul manubrio in cerca di sostegno. Respiro a fondo: "va tutto bene". Sfilo come in tranche davanti ai rossi piemontesi. Sono salvo: il banco frigorifero. Frastornato non mi accorgo che in realtà sto proprio scarrocciando contro uno scaffale. Whisky. Fa caldo qui. La testa leggera e i palmi umidi. Sono ipnotizzato dalle etichette che mi frullano davanti. Qui non c'è, ma non si dimentica il gusto dell'Ardbeg. Il profumo pieno di torba e il gusto pungente, caldo, morbido al palato. Non si dimentica. Perché sono venuto qui stasera, solo? Ce la posso fare. Piegato sul carrello rotoliamo insieme. L'ascensione al Calvario dei single malt. Le birre mi pressano da destra. Le grappe e poi è finita. Bibite analcoliche. Raccatto un pacco di lattine e sono fuori. Poi mi fermo. Non mi ricordo neanche più l'ultima volta che ho bevuto. Ho la gola di cartone. Ora ne prendo una, m'infilo in macchina e... Scrollo la testa per far uscire il pensiero. I biscotti. Le casse. Buonasera. No, non ho la card. Grazie.

L'aria fresca nel garage mi rinfranca. Sono ok. Guido piangendo e la musica mi calma. Il volume al massimo, taglio la strada come fosse acqua nera.
Le mie tre idee sono sparite. Solo questa gola di cartone. Lei già dorme; adesso è tardi, è già domani. Buonanotte ai suonatori!